L’etica nella professione del Consulente Tecnico
23 ottobre, 2008 by Agata Romeo - Psicologo
Categoria: Deontologia
La psicologia forense rappresenta uno di quegli ambiti di esercizio della professione in cui occorre rispondere ad esigenze che, talvolta, il Codice Deontologico non tratta in modo esplicito. Occorre quindi inferire ed interpretare gli articoli per “adattarli” alle proprie necessità. E’ da questo bisogno condiviso che il 15 ottobre 1999 l’Assemblea nazionale dell’Associazione di psicologia giuridica, a Torino, ha delineato le “Linee guida deontologiche per la psicologia forense”. Esse, da sole, non costituiscono un Codice Professionale ma “riadattano” al campo giuridico quanto previsto dalla deontologia professionale dello psicologo, creata, invece, considerando prevalentemente un modello più clinico-terapeutico.
Uno psicologo che opera nel sistema giudiziario deve innanzi tutto rispettare il proprio codice deontologico, la cui inosservanza ed ogni azione od omissione, comunque contrarie al decoro, alla dignità ed al corretto esercizio della professione, sono punite secondo l’art.26, comma 1°, della Legge del 18 febbraio del 1989 [Art.2 Cod. Deont. Psi].
E’ bene che il professionista accresca le conoscenze relative alle proprie competenze e che sia consapevole che “può intervenire significativamente sulla vita d’altri…..ed….evitare l’uso non appropriato della sua influenza” [Art.3].
Nell’elaborazione peritale e nella stesura delle relazioni, occorre non solo verificare ma anche falsificare la propria teoria, indicando le fonti, valutando l’attendibilità delle persone esaminate e la validità delle informazioni, segnalando i limiti delle conclusioni raggiunte, così come prevede l’art. 7 del Codice. Di fronte alla molteplicità ed alla relatività delle teorie psicologiche, bisogna esplicitare la propria teoria, documentare nel modo più dettagliato possibile i metodi di indagine e le valutazioni effettuate.
Il Magistrato, peritus peritorum, ove ritenga necessario può scegliere di farsi assistere da un esperto, con particolari competenze tecniche. Il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone aventi particolari competenze nella specifica disciplina (Art. 221 c.p.p.). Ne consegue il dovere dell’esperto di esprimersi solo ed esclusivamente quando sia in possesso effettivamente delle capacità necessarie per l’espletamento dell’incarico affidatogli, in quel binomio di scienza e coscienza che deve caratterizzare l’opera svolta. Egli dovrà attingere a tutto il suo patrimonio del sapere e non dovrà trascurare di chiedere al giudice la nomina di altri specialisti laddove ne dovesse ravvisare la necessità. Il compito del C.T.U. è quello di produrre gli elementi necessari al giudice per formulare il proprio giudizio.
Nella pratica professionale per gli psicologi giuridici si accentuano i dilemmi etici, spesso, ad esempio, i quesiti posti da un Giudice, mettono alla prova i limiti della conoscenza psicologica, è questo il caso in cui si fa riferimento al concetto di verità, o della possibilità predittiva.
La questione etica quindi il professionista deve porsela nel momento in cui accetta l’incarico sia esso nominato da un giudice che da un privato. Oltre l’analisi dei limiti e alla valutazione delle competenze specifiche richieste dalla parte committente, un professionista deve “fare i conti” con i propri valori personali. Convinzioni e atteggiamenti circa problematiche sociali possono influenzare, seppur inconsapevolmente, l’etica professionale portando a deduzioni non corrette o parzialmente viziate.
Il Consulente d’Ufficio giura di far conoscere al giudice la verità mentre il CTP non ha tale obbligo, ciò non significa che potrà, dovendo tutelare gli interessi del proprio cliente, fare affermazioni mendaci, falsificare test, o fornire documentazioni artefatte, tuttavia potrà verificare che le operazioni peritali del C.T.U. siano svolte correttamente e redigere delle controdeduzioni relative alla valutazione dei fatti, mediante dati coerenti fondati su conoscenze scientifiche, in cui esporrà dubbi, affermazioni ed ipotesi alternative.
Il C.T.U., nell’esaminare le persone non può proporsi alleato ma deve chiarire subito la propria posizione e quella dell’esaminato stesso, non approfittando del “potere” conferito dal ruolo ricoperto, al fine di carpire dettagli che potrebbero rivelarsi importanti per le indagini. Il linguaggio deve essere sempre comprensibile per gli interlocutori, occorre, inoltre, che il consulente tenga a mente che quanto verrà scritto e depositato in cancelleria, diverrà un atto pubblico, fruibile dagli stessi soggetti esaminati, e poichè contenente informazioni relative alle caratteristiche psicologiche, si rischia possa diventare un’arma per la controparte o un limite per la persona stessa.
Il C.T.U. è sottoposto a “controlli” sia sul piano etico che professionale, tuttavia deve rifiutare quegli interventi che in un certo qual modo possono invalidare o limitare il proprio operato, nel rispetto dell’Art.33 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, può esporre e accettare critiche e reclami da parte di colleghi, nonché da parte degli stessi clienti o da terze persone.
Succede spesso che il C.T.U. sia pervaso dall’irrefrenabile desiderio di oltrepassare il confine del ruolo peritale, per cui non si limita ad operare in qualità di ausiliario del giudice rispondendo al quesito ma tende ad assumere un ruolo terapeutico o assistenziale, ecc.
Anche i consulenti di parte possono incorrere frequentemente in comportamenti illeciti:
• Esaminare o stabilire relazioni con bambini con l’obiettivo di manipolarli in vista del loro esame;
• Indirizzare il cliente al Servizio pubblico per procurarsi una documentazione di favore da fonte autorevole;
• Fabbricare esami (testologici o non) e false relazioni;
• Presentare come esito di propri accertamenti dati forniti dal cliente su terze persone;
• Istruire il cliente nel simulare una condizione mentale, un disturbo di svariata natura o a mentire;
• Addestrare il cliente a falsificare un test;
• Non fornire i protocolli dei test quando ciò è previsto;
• Utilizzare materiale psicodiagnostico poco conosciuto e pertanto non confrontabile;
• Nei casi di segnalazione di abuso a danno di bambini, indurre i bambini a raccontare l’abuso (non essendone stato incaricato dall’ Autorità giudiziaria);
• Fornire al giudice informazioni non contenute nelle relazioni;
• Contattare persone o consultare fonti documentali per acquisire notizie senza avvisare procuratori e CC.TT.PP;
• Sposare la tesi colpevolista del Pubblico Ministero;
• Ecc….
Si tratta di un processo complesso, che rimanda costantemente ai fondamenti etici dei vari codici nel campo civile e penale ma anche ai fondamenti epistemologici delle discipline in gioco, la psicologia ed il diritto, e i cui esiti tecnico – metodologici non possono essere dati per acquisiti una volta per tutte.
Sia il diritto che la psicologia, sono due scienze con riferimenti diversi, non si può non considerarlo, ciò rende talvolta ancora più difficile il compito dei consulenti nel tentativo di poterle “conciliare”.