Commento alla sentenza n. 121 del 2007
19 marzo, 2008 by Prof. Gulotta
Categoria: SPG - Società di Psicologia Giuridica
La rivista interdisciplinare “Maltrattamento e abuso all’infanzia” (Franco Angeli editore, n. 3, anno 2007) ha pubblicato un commento del prof. Guglielmo Gulotta, ordinario di Psicologia Giuridica, ad una importante sentenza della Corte di Cassazione in materia di abuso sessuale. Si tratta della sentenza n.121/2007 della III sezione, la quale, come opportunamente dice la prof. Luisella De Cataldo, inaugura un processo di “scientifizzazione” relativo alla valutazione della testimonianza infantile nei casi di sospetto abuso sessuale su minore, orientamento confermato, poi, da altre sentenze successive della Corte di Cassazione.
Riproponiamo per esteso l’articolo del prof. Gulotta perchè siamo convinti che questa sentenza segni effettivamente un punto di arrivo nella difficile problematica della raccolta e della valutazione della testimonianza del bambino presunto vittima di violenza sessuale.
Agata Romeo - Psicologo
La Sezione III della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 121 del 2007 ha finalmente indicato precisi parametri cui attenersi nella valutazione delle dichiarazioni dei minori e nella valutazione psicologica del bambino presunta vittima di abusi sessuali. La portata di questa sentenza è straordinaria e segna una svolta decisiva nella giurisprudenza in questa materia, fino ad ora poco ricettiva delle risultanze scientifiche in tema di valutazione della testimonianza infantile e della valutazione psicologica del minore presunta vittima di abuso sessuale. In una materia così sfuggente come quella concernente la testimonianza dei bambini – spesso molto piccoli e spesso unici possibili testimoni perché vittime di gravissimi reati – era necessaria una puntualizzazione che orientasse gli interpreti, dato che nella pratica forense quasi sempre emerge uno scollamento con l’esperienza scientifica.
Come fa notare la stessa sentenza, nella maggior parte dei casi giudiziari in materia di reati sessuali, “mancano testi o riscontri diretti alle accuse” che si sostanziano pertanto quasi esclusivamente delle dichiarazioni della presunta vittima. Devono quindi essere accolte con molto favore le preziose indicazioni che questa Sentenza fornisce circa la valutazione delle stesse. Finalmente, i principi cardine enucleati traducono in modo molto puntuale i risultati dei più rigorosi studi scientifici – italiani e stranieri – in tema di memoria infantile, raccolta e valutazione della testimonianza, suggestionabilità dei minori, valutazione clinica del danno come elemento probatorio. I principi che vengono affermati si allineano perfettamente con le indicazioni provenienti dai più importanti protocolli esistenti sul nostro territorio in materia di raccolta e valutazione della testimonianza minorile nei casi di sospetto abuso sessuale, ovvero la Carta di Noto, le Linee Guida in tema di abuso sui minori elaborate dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA) e le Linee guida dello Psicologo Forense e il successivo Protocollo di Venezia con l’allegato “guida metodologica per l’assessment di minori coinvolti in presunti abusi sessuali collettivi” Le parole stesse utilizzate nella motivazione risuonano quali eco di ricerche empiriche e di linee guida ad esse ispirate, di cui troppo spesso in sede forense non si è tenuto conto”.
Aspecificità dei sintomi
“Come nella quasi totalità dei reati sessuali, mancano testi o riscontri diretti alle accuse e nel caso concreto sono carenti nella bambina sintomi collegabili al trauma sessuale. La piccola presentava qualche disagio di equivoca genesi che ben può essere attribuito, come ha sostenuto l’imputato, alla situazione familiare ed alla separazione dei genitori; è noto che la risposta allo stress è aspecifica per cui le stesse reazioni emotive e comportamentali possono derivare sia dall’abuso sessuale sia dal conflitto genitoriale, sia da entrambe i fattori.”
Un punto cardine di questa sentenza riguarda la valutazione dei cosiddetti “indicatori” dell’abuso sessuale. Non è raro imbattersi in quesiti peritali che incaricano il consulente psicologo di riferire a proposito della presenza o meno di segni e sintomi “indicatori di una traumatizzazione sessuale”. E altrettanto non è raro trovare sentenze che assolvono o condannano l’imputato sulla base della riscontrata presenza o assenza di detti “indicatori di abuso”. Questa sentenza, in accordo con le risultanze scientifiche in questa materia, chiarisce che la risposta allo stress è aspecifica per cui le stesse reazioni emotive e comportamentali possono derivare da differenti agenti “stressogeni” che possono essere: l’abuso sessuale, il conflitto genitoriale, entrambi i fattori o altre cause ancora. La letteratura italiana e internazionale indica, come viene riportato nelle Linee Guida della SINPIA, che “Non esiste una sindrome clinica “caratteristica” ed identificabile legata specificamente all’abuso sessuale. I disturbi psichici ad esso legati, che compaiono peraltro incostantemente ed in funzione dei fattori di rischio presenti e delle modalità (durata, intensità) con cui l’abuso è stato compiuto, possono corrispondere ad un ampio repertorio di risposte comportamentali comune anche ad altre condizioni cliniche (principio di equifinalità) (…). Non esistono indici comportamentali ed emotivi patognomonici di abuso sessuale; in un’elevata percentuale di casi non si manifestano condotte problematiche. L’impatto di un abuso sessuale può variare qualitativamente e quantitativamente in funzione di variabili particolari. (…). Inoltre, in letteratura non esistono pareri concordi e studi che dimostrino l’esclusività di una o più condotte come criterio diagnostico. Questi indici possono essere riscontrati anche in minori che hanno subito traumi o stress familiari/ambientali di natura non sessuale. E’ quindi necessaria una particolare cautela prima di identificare un comportamento come possibile “indicatore” di una condizione di abuso”. Per questa ragione non è mai possibile concludere per una “compatibilità” – concetto che di per sé ha poco senso perché impossibile da definire secondo criteri scientifici- dell’abuso sessuale sulla base della presenza di uno o più sintomi.
Una medesima costellazione sintomatica può infatti essere determinata da differenti cause e, al contempo, una medesima situazione stressogena, se non addirittura francamente traumatica, può determinare in soggetti diversi – anche grazie alla presenza di diversi fattori di resilienza o protezione personali o ambientali – risposte psicologiche e comportamentali affatto simili. La valutazione stessa dei segnali di disagio è peraltro soggetta a molte controversie tra gli stessi esperti e vi è poca convergenza su cosa effettivamente debba essere considerato un sintomo – o quantomeno un chiaro segno di disagio – e cosa invece sia da intendersi “normale” (per quell’età, per quel contesto sociale, per quella particolare costellazione familiare, per la peculiare storia di vita, ecc…). Questo tipo di valutazione, molto spesso, è complicata inoltre dall’impiego di strumenti “clinici” – certamente utili allo psicologo nella costruzione della relazione con il piccolo paziente e nella raccolta di dati su cui costruire ipotesi interpretative e diagnostiche – che non hanno però una validazione per l’uso forense. Specialmente nella valutazione dei bambini molto piccoli è frequente il ricorso a materiale testistico o attività poco strutturate, quali ad esempio il disegno o il gioco simbolico. Le ricerche più rigorose hanno dimostrato che questo tipo di materiale non è in alcun modo in grado di differenziare i bambini vittime di abuso sessuale da quelli che fortunatamente non lo sono.
Le credibilità clinica
I giudici invece hanno sostanzialmente demandato allo esperto il compito, che non è delegabile, di valutare l’attendibilità della dichiarante ed inoltre non hanno preso in esame, neppure per confutarle, le differenti conclusioni del consulente della difesa.
La Sentenza n. 121 del 2007 chiarisce quale debba essere il ruolo e il compito demandato dal giudice al suo consulente nella veste di esperto di valutazione psicologica della testimonianza del minore, precisando che al perito psicologo, non può essere demandato il compito, che non è in alcun modo delegabile, di accertare la veridicità storica di quanto raccontato dal bambino, né tantomeno di valutare l’attendibilità del minore testimone – compiti questi che spettano solamente al giudice. L’attendibilità delle dichiarazioni rese dal minore, così come il giudizio di compatibilità con i presunti fatti, sono di esclusiva competenza del Giudice. Lo psicologo, nella sua veste di perito, deve invece fornire al giudice gli strumenti perché egli possa serenamente e il più obiettivamente possibile giungere ad un giudizio. La valutazione che deve essere demandata all’esperto riguarda queste due distinte dimensioni:
1. la competenza (o accuratezza): riguarda il rapporto tra ciò che è successo e ciò che si ritiene sia successo, cioè il rapporto tra realtà oggettiva e realtà soggettiva. La valutazione della competenza riguarda l’accertamento delle capacità percettive, mnestiche, cognitive e linguistiche.
2. la credibilità clinica: riguarda il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e la motivazione a dichiararlo, cioè il rapporto tra realtà soggettiva e realtà riferita. Si riferisce alle eventuali influenze motivazionali e suggestive che possono avere agito, esplicitamente o implicitamente, esternamente od internamente, nel soggetto testimone e/o sulla testimonianza oggettivata.
Il Perito deve quindi valutare quale sia lo sviluppo psichico del minore, la sua capacità di comprendere i fatti e di rievocarli in modo utile e corretto, non trascurando di esaminare tutti quegli elementi che possono influire enormemente sulla sua capacità di testimoniare correttamente quali le sue condizioni emozionali, le dinamiche parentali del suo nucleo d’appartenenza e le modalità con cui il bambino ha percepito e vissuto gli episodi per cui è testimone. In nessun caso deve esprimersi invece sull’accadimento dei fatti.
La necessità di valutare le dinamiche familiari per escludere contesti suggestivi
“In tale contesto – e correttamente – i Giudici di merito hanno affidato la valutazione della minore ad un esperto il quale avrebbe dovuto fornire solo le indicazioni e gli strumenti sui quali fondare la decisione; il consulente avrebbe dovuto precisare quale fosse lo sviluppo psichico della minore, le sue capacità di comprendere i fatti e di rievocarli in modo utile ed indicare quali fossero le sue condizioni emozionali, indagare sulle dinamiche parentali e riferire come la minore avesse percepito e vissuto gli episodi per cui è processo (…) inoltre, il contesto era fortemente a rischio di, pur involontarie, manipolazioni sulla minore per la ricordata conflittualità familiare e per i sentimenti negativi della bambina nei confronti della madre.
Molto importante appare il riferimento che la Sentenza fa alla necessità di considerare le “dinamiche parentali”: soprattutto nei casi di presunto abuso intrafamiliare è infatti necessario che il perito incaricato della valutazione sia allertato sulla possibilità che le accuse di abuso sessuale rivolte ad uno dei due genitori, solitamente il padre, possa essere il frutto e l’espressione dell’accesa conflittualità genitoriale nella quale il minore è chiamato – anche attraverso manovre e istanze inconsapevoli agli stessi protagonisti – a schierarsi al fianco di uno dei due. Sono questi i casi della cosiddetta Sindrome da Alienazione Parentale. una patologia relazionale identificata intorno al 1980 dallo psichiatra Richard Gardner che può presentarsi nelle situazioni di separazione e divorzio conflittuali. In tali contesti il figlio può avviare una campagna di denigrazione non giustificata nei confronti di uno dei due genitori, solitamente quello non affidatario, determinata dalla programmazione e dal lavaggio del cervello, agito – anche in maniera inconsapevole – dall’altro genitore sul bambino, che nelle situazioni più gravi può sfociare appunto in false accuse di abuso sessuale.
Il fraintendimento
“Tuttavia è prospettabile una residua alternativa, oltre a quelle ricordate e cioè che la bambina abbia frainteso la realtà dal momento che è stata l’involontario veicolo di altrui sospetti che ha convalidato dando vita ad un circolo vizioso di scambi comunicativi attraverso i quali il fraintendimento, anziché risolversi, è stato amplificato in modo esponenziale”.
La sentenza sottolinea, attraverso un ragionamento che rivela una sofisticata intelligenza, che quando – come nel caso considerato – le dichiarazioni accusatorie del minore vengono valutate come non attendibili e non corrispondenti ad una verità storica, questo non significa automaticamente che il bambino abbia “architettato un consapevole mendacio” o che “abbia ripetuto una trama narrativa calunniosa da altri predisposta”. Vi è infatti la possibilità che le accuse siano sorte non come espressione di una deliberata volontà del bambino (o di qualcun altro, ipotesi comunque da verificare) di accusare falsamente il presunto colpevole, bensì a causa di un grave fraintendimento della realtà. In questi casi, certamente più difficili da diagnosticare, le accuse di abuso sessuale sono il risultato di una co-costruzione narrativa che poggia sul fraintendimento iniziale, amplificato dai successivi scambi comunicativi tra il bambino e le varie figure adulte che lo interrogano. Chi interagisce con il minore avendo nella mente – a causa di una comunicazione ambigua e passibile di più interpretazioni – la terribile paura che questo possa essere stato oggetto di molestie sessuali, può facilmente credere di essere solo il depositario del racconto del bambino, mentre in realtà può partecipare inconsapevolmente alla costruzione del cosiddetto fattoide, ovvero ad una realtà costruita dal linguaggio, una realtà che ha l’apparenza del fatto senza però esserlo. Il fraintendimento può sorgere sulla base di una comunicazione del bambino di per sé neutra che può però assumere significati anche molto gravi a seconda della declinazione contestuale di quanto riferito. Si pensi ad esempio ad una affermazione del tipo: “ho visto il pisello del papà”. E’ evidente che questa affermazione può indicare situazioni molto differenti tra loro: il minore in questione può accidentalmente aver visto l’organo genitale del genitore (sotto la doccia, mentre si stava cambiando, ecc…) oppure può averlo visto perché questo ha deliberatamente coinvolto il figlio in attività di carattere sessuale. Ecco che, se chi riceve questo tipo di comunicazione ipotizza – verosimilmente con molto timore e angoscia – il secondo scenario, potrà inavvertitamente e inconsapevolmente indirizzare il racconto del minore verso la costruzione di un racconto di abuso
L’importanza dell’intervista
E’ sperimentalmente dimostrato che un bambino quando è incoraggiato e sollecitato a raccontare da parte di persone che hanno una influenza su di lui (e ogni adulto è per un bambino un soggetto autorevole) tenda a fornire la risposta compiacente che l’interrogante si attende e che dipende, in buona parte, dalla formulazione della domanda. Si verifica un meccanismo per il quale il bambino asseconda l’intervistatore e racconta quello che lo stesso si attende, o teme, di sentire; l’adulto in modo inconsapevole fa comprendere l’oggetto della sua aspettativa con la sua domanda suggestiva che formula al bambino. In sintesi, l’adulto crede di chiedere per sapere mentre in realtà trasmette al bambino una informazione su ciò che ritiene sia successo.
Come spiega la Sentenza, un bambino, quando è incoraggiato o sollecitato a raccontare da parte di persone che hanno una influenza su di lui – e ogni adulto è per il bambino un soggetto autorevole – tende a fornire la risposta compiacente che l’interrogante si attende e che dipende, quasi sempre, dalla formulazione della domanda. La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che anche i bambini molto piccoli possono essere dei buoni testimoni se lasciati liberi di riferire ciò che ricordano spontaneamente o se interrogati in maniera non suggestiva. Al contrario, quando il bambino viene interrogato attraverso l’impiego di domande inducenti e suggestive, tende a conformarsi all’aspettativa del suo interlocutore distorcendo il contenuto della sua testimonianza. La suggestionabilità è tanto maggiore tanto più il bambino è piccolo e lo stesso vale per la tendenza ad adeguarsi alle aspettative dell’interlocutore. Deve essere precisato che in questi casi le aspettative coincidono non con ciò che l’interlocutore pensa o spera di trovare, bensì con ciò che teme sia successo. Purtroppo, molto spesso chi interroga i bambini – anche quando si tratta di professionisti – ignora o dimentica che tutte le domande contengono delle premesse che queste vengono implicitamente comunicate al minore ed è precisamente in questo modo che al bambino vengono trasmesse le paure e le informazioni che poi utilizza per assecondare l’aspettativa dell’interlocutore.
Le false memorie
Se reiteratamente sollecitato con inappropriati metodi di intervista che implicano la risposta o che trasmettono notizie, il minore può a poco a poco introiettare quelle informazioni ricevute, che hanno condizionato le sue risposte, fino a radicare un falso ricordo autobiografico; gli studiosi della memoria insegnano che gli adulti “raccontano ricordando” mentre i bambini “ricordano raccontando” strutturando cioè, il ricordo sulla base della narrazione fatta. Una volta fornita una versione, anche indotta, questa si consolida nel tempo e viene percepita come corrispondente alla realtà. (…)non era importante avere come referente le asserzioni della minore al momento dello incidente probatorio quando ormai i ricordi, veri o falsi che fossero, si erano consolidati per la loro reiterazione prolungata nel corso di tre anni. A questo punto era ormai impossibile discernere tra una memoria genuina e una indotta.
Il circolo vizioso del fraintendimento viene infine suggellato dall’instillarsi nella mente del minore una falsa memoria autobiografica rispetto a quanto accaduto, per cui il bambino inizia a ritenere vero un fatto in realtà mai accaduto. I più importanti studiosi della memoria, tra cui l’italiana Giuliana Mazzoni, insegnano che gli adulti “raccontano ricordando”, mentre i bambini “ricordano raccontando”. Questo significa che il minore attraverso il racconto che è sollecitato a fornire, vero o falso che sia, costruisce nella sua memoria il suo corrispettivo ricordo: se il racconto che fa è falso, perché frutto di un adeguamento alle errate aspettative dell’interlocutore, egli costruirà nella sua mente un corrispondente falso ricordo autobiografico, rendendo di fatto impossibile stabilire a posteriori cosa realmente è accaduto. Giuliana Mazzoni e Elisabeth Loftus, le due più importanti studiose al mondo di memoria, hanno dimostrato che è possibile instillare false memorie autobiografiche anche relative a episodi traumatici in realtà mai accaduti, come ad esempio l’aver subito un attacco fisico da parte di un animale. Hanno altresì dimostrato che è pressoché impossibile distinguere tra un vero e un falso ricordo sulla base del ricordo in sé (ad esempio attraverso l’esame della quantità o della tipologia di dettagli) o delle emozioni ad esso associate. Anche una falsa memoria autobiografica può infatti suscitare nel soggetto emozioni coerenti (perché queste – paradossalmente – sono di fatto genuine) con il ricordo in sé.
L’importanza delle prime dichiarazioni spontanee
Nella valutazione della testimonianza di un bambino, le primissime dichiarazioni spontanee sono quelle maggiormente attendibili proprio perché non “inquinate” da interventi esterni che possono alterare la memoria dello evento.
Pertanto, importante era l’indagine sulla genesi delle prime narrazioni che, sempre opportuna quando il dichiarante è un minore, si imponeva nel caso dal momento che la bambina non si è confidata spontaneamente, ma su insistenza della nonna paterna preoccupata per la situazione di disagio della nipote (…).
Coerentemente, la Sentenza conclude indicando la necessità di vagliare con estrema attenzione le primissime dichiarazioni spontanee dei minori essendo queste maggiormente attendibili perché non “inquinate” da interventi esterni che alterano la memoria dell’evento. I bambini anche piccoli possono essere degli ottimi testimoni se lasciati liberi di raccontare; la qualità della prestazione peggiora però significativamente se il bambino viene “guidato” da interviste condotte con modalità inducenti e suggestive.
Questa sentenza segue la scia di due recenti sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione che hanno stretto un forte legame tra scienza e processo: una in tema di “nessi di causa” e una in tema di “imputabilità”.
La prima (Cass. Sez. Un., 11 settembre 2002, in Diritto penale e processo, pag. 54, n. 1-2003) impone al giudicante di non trascurare nella valutazione delle prove “gli enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico”, le cosiddette “leggi di copertura”, quando esse portino ad un “ragionevole dubbio fondato su specifici elementi che, in base all’evidenza disponibile, lo avvalorino nel caso concreto”. Le Sezioni Unite in particolare, in questa decisione, hanno affermato che il giudice, dovendo accertare se l’antecedente causale di un evento lesivo è quello che ipotizza l’accusa al di là di ogni ragionevole dubbio, ed avendo a disposizione evidenze scientifiche che “neutralizzano” con alta probabilità “l’ipotesi prospettata dall’accusa, non ha altra strada che disporre l’esito assolutorio stabilito dall’articolo 530 co. 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia in dubio pro reo”.
La seconda, a proposito di imputabilità (Cass. Sez. Un., 25 gennaio 2005, n. 9163, in R. Foro It., II, p. 425) stabilisce che: “E per il resto, quanto al rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico, dovendosi anche ritenere superato l’orientamento inteso a sostenere la “estrema normativizzazione del giudizio sulla imputabilità, che sostanzialmente finisce col negare la base empirica del giudizio medesimo, pervenendo ‘alla creazione di un concetto artificiale”; sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare – pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio – e, pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici: e tanto va considerato senza coinvolgere, d’altra parte e più in generale, ulteriori riflessioni, di portata filosofica oltre che scientifica, circa il giudizio di relatività che oggi viene assegnato, anche dalla comunità scientifica, alle scienze in genere, anche a quelle una volta considerate assolutamente ‘esatte’, del tutto pacifiche e condivise (nel tramonto dell’ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità necessarie o per evidenza o per dimostrazione, come è stato autorevolmente scritto), vieppiù tanto rilevando nel campo del sapere medico”.
Queste decisioni hanno spezzato la prassi autoreferenziale di molta giurisprudenza per cui la sussistenza di un fenomeno di natura umana, per esempio il plagio (esiste o non esiste?), la capacità di intendere e di volere (in cosa consiste?), l’attendibilità di una testimonianza (come si valuta?) veniva fatto dipendere da cosa ne pensava la dottrina giuridica e la giurisprudenza e non dalle risultanze proprie di scienze quali la sociologia e la psicologia che studiano ex professo questi fenomeni.
Il principio che mi sento di estrarre da questo importante orientamento giurisprudenziale è che il convincimento del giudice è libero finché la scienza non lo vincoli con i suoi risultati.
Come ho accennato in apertura, la sentenza n. 121 del 2007 anticipa altre decisioni della Cassazione – sempre in materia di valutazione della testimonianza infantile nei casi di sospetto abuso sessuale su minore – che si sono distinte per il ricorso a valutazioni di carattere scientifico. In particolare vorrei segnalare la sentenza n. 852 del 2007 (la cosiddetta “sentenza Rignano”) e la sentenza n. 02204 dello stesso anno, entrambe relative a presunti abusi collettivi che si sarebbero verificati all’interno di scuole materne italiani. Entrambe queste sentenze fanno propri molti dei principi espressi dalla sentenza n. 121 del 2007 e qui ampiamente discussi.
Prof. Gulotta
Ordinario di Psicologia Giuridica all’Università di Torino
Socio Consigliere della S.P.G.